Nessuna razza: il colore della pelle e la vitamina D

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Sono veramente troppi gli episodi di intolleranza a cui dobbiamo assistere quotidianamente: dai barbari insulti al ministro Kyenge da parte di esponenti politici e non, ai cori contro atleti di colore come Balotelli, al razzismo di tutti i giorni che piaga le nostre comunità portandole verso la paura del diverso.

Personalmente considero qualsiasi forma di discriminazione un attentato al concetto stesso di Civiltà e trovo vergognoso che dopo millenni di evoluzione culturale possano ancora esistere uomini che reputano le proprie caratteristiche genetico-comportamentali superiori rispetto a quelle di altre persone.

Il concetto di razza sa di stantìo e le semplici differenze di pigmentazione cutanea non possono essere usate come discriminante razziale in nessun contesto.

Ma perché alcuni uomini sono bianchi ed altri sono neri?

Le risposte a questa domanda sono spesso fantasiose se non offensive, basti pensare a dottrine come il Mormonismo che vede la pelle scura come un marchio del peccato e una maledizione divina.

Senza scomodare nessun essere trascendente, le ragioni delle differenti colorazioni della cute umana hanno semplici basi genetiche ed evolutive. La risposta risiede, ancora una volta, in una molecola: la vitamina D.

Le vitamine sono molecole necessarie alla nostra sopravvivenza ma che il nostro organismo non è in grado di produrre in modo autonomo e che vanno quindi assunte quotidianamente tramite l’alimentazione.

Ciascuna vitamina svolge compiti essenziali all’interno del nostro organismo ed il gruppo delle vitamine D in particolare promuove l’assorbimento di calcio e fosforo, nonché il processo di mineralizzazione delle ossa. Una carenza di vitamina D porta a gravi malattie scheletriche come il rachitismo.

La vitamina D deve essere assorbita tramite il cibo. Negli ultimi diecimila anni in Europa lo sviluppo dell’agricoltura ha promosso i cerali ad alimento primario della dieta dell’uomo. I cereali però, a differenza di carne e pesce, non contengono la vitamina D ma solo un suo precursore, il quale può diventare vitamina D a livello della pelle grazie all’assorbimento dei raggi UV del sole.

Si può quindi vivere mangiando cereali a patto di assorbire abbastanza raggi ultravioletti dal sole, in modo da garantire la conversione del precursone in vitamina D finale. Un’eccessiva quantità di raggi UV, però, è pericolosa e può facilmente arrecare gravi danni alla cute (es. melanoma).

Il gioco si basa quindi sul bilanciamento tra questi due fattori. Da un lato una pelle scura garantisce una buona schermatura dai raggi ultravioletti ma limita la conversione del precursore in vitamina D; dall’altro una pelle chiara garantisce il corretto metabolismo della vitamina D ma espone maggiormente ai danni causati dai raggi UV.

In sintesi, una pelle scura è vantaggiosa nelle regioni tropicali, dove è importante proteggersi dal forte sole, a patto di introdurre abbastanza vitamina D da carne e pesce. Una pelle chiara, invece, è vantaggiosa nelle regioni nordiche, dove il sole scarseggia e, volendo continuare ad utilizzare i prodotti dell’agricoltura, è necessario assorbire la maggior quantità possibile dei pochi raggi UV messi a disposizione dalla latitudine elevata.

Questa è una delle ragioni per le quali la specie umana ha sviluppato un’ampia varietà di pigmentazioni cutanee.

La selezione naturale favorisce i caratteri più adatti ad affrontare le sfide dell’ambiente in cui ci si trova. Non è una questione di superiorità e inferiorità, ma di semplice adattamento.

[le idee esposte in questo post si possono trovare nel libro “Chi siamo, storia della diversità umana” di Luca e Francesco Cavalli-Sforza per Mondadori]

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Informazioni su dariomelgari

Sono un biologo biomedico laureato presso l'Universita' degli Studi di Milano. Attualmente sono un PhD student presso la University of Bristol dove studio l'attivita' elettrica del cuore e le molecole che la modulano.

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